L’aria rivoluzionaria si respira a tutte le ore in Tunisia. Per alcuni, infatti, la vera rivoluzione è appena cominciata e, nel caos generale, sono molti ad avere le idee ben chiare sia sul futuro, sia sull’identità tunisina. Basta dare un’occhiata su facebook dove, su molte bacheche, si legge: “Sogniamo la democrazia. Siamo musulmani e non siamo islamisti. Siamo moderati e non siamo estremisti. Siamo moderni e non siamo oscurantisti”.
Il 14 gennaio di un anno fa la Tunisia cominciava a festeggiare la fuga del dittatore Ben Alì e a sognare un futuro dignitoso, democratico e libero. Oggi quella gioia e quell’entusiasmo sono stati sostituiti da preoccupazioni per l’economia, nuove paure e tanti dubbi. Per molti, soprattutto nel mondo intellettuale, è stata grande la scossa della vittoria del partito islamico Ennahda (Rinascita) alle elezioni per l’Assemblea Costituente del 23 ottobre con quasi il 40% dei voti (89 seggi su 217), così come è stato grande lo choc di assistere all’ingresso nella scena pubblica dei salafiti (ultra-islamisti) che, al contrario di Ennahda, non accettano la dialettica democratica e intendono distruggerla per imporre la sharia. “L’approccio salafita è completamente estraneo alla cultura tunisina – spiega Mourad Ben Cheikh, regista di “Non più paura”, documentario sulla rivoluzione tunisina proiettato, tra gli altri, al Festival del cinema di Cannes – Non è naturale, dunque, per noi vedere sempre più donne velate per strada, o addirittura studentesse che vogliono sostenere gli esami all’università con il niqab, né assistere ad aggressioni di gruppi musicali, come è capitato a “I figli delle miniere” a Meknesi, ai quali è stato impedito di suonare per le loro idee politiche di sinistra. Probabilmente qualcuno fuori dalla Tunisia sta muovendo un gruppo di persone come marionette con un piano ben preciso”.
Il pericolo di un’islamizzazione parziale della società tunisina, insieme alla concentrazione di poteri nelle mani di un unico partito, Ennahda appunto, sono dunque tra le nuove paure che la Tunisia si trova a vivere a un anno dalla liberazione del Paese. Ad appesantire maggiormente l’atmosfera ci sono, però, anche problemi più pratici come l’ormai dichiarata crisi del turismo, che era uno dei principali motori economici del Paese, e il rischio di desertificazione industriale. La recente chiusura dello stabilimento gestito dal gruppo giapponese Yazaki che produceva fasci di cavi a Om Laarayès, nella regione mineraria di Gafsa, ha aumentato lo stato d’allarme. “La decisione è stata presa in seguito a scioperi irregolari e non annunciati dai dipendenti il 15 e 16 dicembre che hanno causato danni per la clientela secondo Yazaki, leader mondiale nel suo settore – spiega Tarek Chaabouni, dirigente politico della sinistra democratica (Tajdid, ex partito comunista tunisino) – La problematica è stata dibattuta nel XXII Congresso dell’Unione dei lavoratori, l’UGTT, che si è tenuto a fine anno a Tabarka quando è stato eletto il nuovo segretario Houssine Abassi. Nell’Unione c’è stato un rinnovamento, anche qui necessario, ma i problemi restano. Tra le 3mila imprese straniere presenti sul territorio, sono andate via già circa 120 secondo l’Union Tunisienne de l’Industrie, du Commerce et de l’Artisanat (UTICA). Parallelamente, però, le esportazioni sono aumentate, anche se leggermente, nei settori elettromeccanico, manufatturiere, tessile, del cuoio e delle calzature. Ma c’è molto malcontento, soprattutto tra i giovani che non hanno lavoro. Il tasso di disoccupazione purtroppo è in crescita. A settembre 2011 era del 18% con un numero di disoccupati pari a 700mila persone”.
La chiusura dello stabilimento Yazaki pesa, dunque, particolarmente sull’occupazione. Il gruppo, già nel 2009, aveva annunciato investimenti per un totale di 25 milioni di euro e la creazione di 5mila posti di lavoro nella sola regione di Gafsa. Un’occasione di ripresa che oggi va in fumo proprio mentre crolla anche il settore dei fosfati che, nel 2011, ha dichiarato un incasso di 200 milioni di dinari contro gli 825 dell’anno precedente, e mentre vengono sospesi anche i lavori di costruzione dello stabilimento per la produzione di pannelli fotovoltaici a Bousalem. In generale, secondo l’UTICA, l’indicatore di produttività in Tunisia è sceso a un livello mai raggiunto prima proprio per l’ondata di scioperi che nei primi dieci mesi del 2011 si sono stati 360.
Proteste, scioperi e sit-in, dunque, hanno caratterizzato l’intero anno. Tra le mobilitazioni più recenti e significative c’è stata quella del 22 novembre, quando i tunisini hanno manifestato davanti al Parlamento, a Bardo, per criticare l’operato di Ennahda. “Comunicare sdegno e dissenso nello spazio pubblico è stata la grande conquista della rivoluzione, dunque è un bene che questo avvenga – aggiunge Mourad Ben Cheikh – Oggi, infatti, assistiamo a un braccio di ferro tra i poteri e la società civile. I politici stanno cercando di capire fino a che punto le gente ha la forza di difendere le proprie libertà e i propri diritti”.
In prima linea nel comunicare disapprovazione ci sono anche le donne. “È vero che in Tunisia il mondo femminile ha molti più diritti rispetto al resto del mondo arabo, ma questi privilegi sono stati ricevuti su un piatto d’argento, senza lottare – sottolinea Sondes Ben Khalifa, giornalista e blogger – Oggi che i rischi di perdere i diritti sono reali è arrivato per le donne il momento di condurre una dura e vera battaglia”.
Già dal 1956, grazie alla volontà del presidente Habib Bourguiba, in Tunisia, infatti, è stata proibita la poligamia e le donne hanno ottenuto il diritto al divorzio e di essere tutrici dei figli. “Sul piano legale, e quindi teorico, le donne beneficiano degli stessi diritti civili e politici degli uomini, ma in pratica la loro partecipazione alla vita politica e la loro presenza nelle alte funzioni dello Stato è debole” spiega Hela Ammar, docente alla Facoltà di diritto a Tunisi, artista visuale e membro dell’Association Tunisienne des Femmes Démocrates (ATFD) e della Commissione nazionale d'inchiesta sugli abusi avvenuti durante la rivoluzione.
“Una delle principali rivendicazioni pre-elettorali è stata imporre il principio di parità in modo da evidenziare il ruolo della donna nella società tunisina e nella rivoluzione stessa”, aggiunge Hela Ammar. “L'attuazione di questo principio, però, non ha portato a una parità nel numero di seggi attribuiti: nell’Assemblea Costituente ci sono solo 49 donne, su 217 posti, ossia il 24%. Il nuovo governo, inoltre, è formato solo da due ministri donne (Sihem Badi, Ministero delle Donne, e Mamia Elbanna Ministero dell'Ambiente) e di un Segretario di Stato presso il Ministero delle infrastrutture e dell’abitazione, Chahida Fraj Bouraoui, su un totale di 30 ministri e 11 segretari di Stato. Questo significa che esiste un’assenza di rappresentanza femminile in politica, ma non per la mancanza di competenze da parte delle nostre politiche”.
Il nuovo governo, votato lo scorso 22 dicembre, è dunque formato prevalentemente da uomini. È presieduto da Hamadi Jebali, leader di Ennahda che ha vissuto 16 anni in carcere, di cui 10 in cella d’isolamento, ed è stato scarcerato con l’amnistia dopo la fuga di Ben Alì. A Ennahda sono stati assegnati anche i dicasteri più importanti: Interno (Alì Layaredh), Giustizia (Noreddine Bhiri) e Affari Esteri (Rafik Ben Abdessalem). Il ministero della Difesa, invece, è andato a Abdelkrim Zbidi, un tecnocrate dell’ex governo ad interim, mentre quello della Cultura a un indipendente, al sociologo Mehdi Mabrouk che, nel suo primo discorso, ha sottolineato “di essere deciso a presentare un programma di riforme per rafforzare i guadagni del settore e per eliminare le restrizioni che ostacolano chi lavora nella cultura”, ma non ha dato alcun cenno sullo sviluppo del progetto della “Città della cultura” da anni in attesa di realizzazione.
Al CPR (Congrès pour la République), partito del presidente della Repubblica, Moncef Marzouki, e alleato di Ennahda insieme a Ettakatol (Forum Démocratique pour le Travail et les Libertés), la cui coalizione viene chiamata Troika, sono andati i ministeri delle Riforme amministrativa (Mohamed Abbou) e della Formazione professionale (Abdelwehab Maatar). CPR e Ettakatol, dopo Ennahda, sono i partiti che hanno ottenuto maggiori seggi alle elezioni, rispettivamente 30 e 21. Gli altri seggi sono stati divisi tra la Pétition populaire pour la liberté, la justice et le développement (19), il PDP (Parti Démocrate Progressiste) (17) e uno sterminato numero di altre liste concorrenti.
“L’opposizione si trova in una situazione di grande frammentazione. La prima esigenza del 2012, infatti, è quella di unirsi e creare un unico fronte democratico – spiega Tarek Chaabouni – L’opposizione è composta da PDP capeggiata dall’avvocato Ahmed Najib Chebbi, dal Tajdid e da Afek Tounes (che rappresentano il Pôle Démocratique Moderniste), da qualche residuo del RCD (Regroupement Costitutional Démocratique), ossia il partito dell’ex presidente Ben Alì, da alcuni indipendenti e dalla Pétition populaire creata da Hashmi Hamdi, titolare di una televisione a Londra con buoni rapporti con l’ex regime, tra le sorprese delle elezioni in termini di voti grazie all’appoggio degli ex componenti del RCD. Nessuno tra questi partiti si è presentato come laico o non credente. Sarebbe stato un suicidio politico”.
“È sbagliato oggi dividere i politici tra laici e non laici, se per laicità s’intende qualcosa di astratto o un concetto importato alla francese. Anche l'Italia sarebbe un paese non laico se guardato con il metro francese – sottolinea Mourad Ben Cheikh – Oggi in Tunisia è importante prestare attenzione, invece, alla grande ricchezza di opinioni, al pluralismo e alla capacità dei progressisti di protestare per difendere lo spazio pubblico e politico come è successo al Bardo, davanti al Parlamento”.
Secondo i risultati di un sondaggio realizzato da Sigma Conseil e reso noto a inizio gennaio, il 41% dei tunisini considera il momento attuale molto critico, mentre il 28% lo vive con meno preoccupazioni. La popolazione si dice, infatti, più fiduciosa per il futuro rispetto al presente. Il 67% è ottimista per l’avvenire e solo il 7% è pessimista.
“Le richieste fatte al nuovo governo, secondo il sondaggio – spiega Chaabouni –riguardano in primis l’occupazione, poi la sicurezza, l’eliminazione del caro vita e l’innalzamento del tenore di vita. In seconda battuta la gente chiede maggiore attenzione alle Regioni e l’abolizione della corruzione. La maggiore popolarità tra i politici è andata a chi sta al potere, ma i tunisini si dicono più fiduciosi verso le istituzioni in se stesse, piuttosto che verso le personalità politiche”.
“Nessuno si accontenta delle parole oggi, tutti aspettano i fatti. Per questo sono davvero pochi quelli che si fidano attualmente dei politici” sottolinea Mohamed Challouf, produttore, regista di documentari e organizzatore di eventi tra cui le celebrazioni per l’anniversario di un anno dalla cacciata di Ben Alì previste a Milano, al Teatro Rosetum, il 15 gennaio. “Nel Paese c’è molta confusione, direi a tratti anarchia se si guarda agli scioperi nelle fabbriche e alle ripetute proteste, e la gente ha paura del presente”, aggiunge Challouf. “Parte delle responsabilità nella nostra condizione attuale sono da attribuire all’Occidente che ha aperto le braccia ai dittatori nel mondo arabo. Gli islamisti, e dunque il rischio della perdita di molte libertà, oggi non sarebbero così in crescita se non ci fossero state oppressione e repressione per tanti anni”.
Nonostante la facciata di modernità e apertura, anche sotto il regime di Ben Ali le libertà individuali sono state messe a dura prova. “Le donne velate, per esempio – spiega Hela Ammar –, sono state perseguitate e talvolta è stato impedito loro di esercitare la propria professione a causa dell’abbigliamento. L’uso del niqab negli spazi pubblici è una libertà individuale e come tale non dovrebbe essere condannata. D'altra parte, però, il niqab, a differenza del velo, pone un problema di sicurezza perché nasconde il volto e non consente l'identificazione della persona che lo indossa. Questo problema è sorto alla facoltà di lettere di Mannuba dove è stato impedito a studentesse di indossare il niqab in sala d’esame. Questo è davvero un argomento delicato al quale, però, è necessario trovare una soluzione in equilibrio tra libertà individuale e rispetto delle tradizioni”.
Contraddizioni, paradossi e contrasti in questa fase si trovano in diversi ambiti, soprattutto se si entra in territori ricchi di tabù, come il sesso. “Ho assistito alla chiusura forzata di alcuni bordelli durante la rivoluzione – racconta Hela Ammar – e sono stata particolarmente colpita dalla violenza e dall'incoscienza di tali atti. Non c’è stata alcuna considerazione per gente che esercita un mestiere riconosciuto e regolato dalla legge. I lavoratori del sesso sono monitorati, pagano le tasse come tutti gli altri e, inoltre, il mercato del sesso, a prescindere dalle connotazioni morali, colma una funzione sociale ancora innegabile ed è esercitato in condizioni d’igiene e sicurezza. La chiusura dei bordelli ora non farà diminuire il sesso illegale, ma al contrario, lo farà aumentare insieme alla crescita dei rischi di malattie e di violenza sessuale”.
La Tunisia di oggi è confusa e smarrita. L’anno è iniziato tra veglioni analcolici, la visita dei ministri degli esteri di Italia, Francia e Germania, l’arrivo del leader di Hamas, Ismail Haniyeh, accolto all’aeroporto di Tunisi con lo slogan “Morte agli ebrei”, e nuove proteste. L’ultima è esplosa a piazza del Governo, il giorno della Befana, per chiedere un risarcimento per i morti e per i feriti della rivoluzione, mentre l’Università di Mannuba è ancora chiusa a causa dell’occupazione dei salafiti che hanno chiesto l’accettazione in sala d’esame di una studentessa con il niqab.
Anche il mondo dell’arte e dello spettacolo è in fermento. Sono tante le idee e le iniziative in programma per il 2012 per “annientare il deserto culturale” degli ultimi 23 anni. Tra i giovani indaffarati a conquistare maggiori libertà ci sono due giovani ballerini, Selma e Soufiene Ouissi, che stanno organizzando la terza edizione di “Dream City 2012: Biennale d'Arte Contemporanea nello spazio pubblico in Tunisia”. L’evento, che si svolgerà dal 26 al 30 settembre a Tunisi e dal 5 al 7 ottobre a Sfax, avrà luogo rigorosamente in strada per coinvolgere tutta la popolazione con video, performance, spettacoli, mostre e dibattiti. “Il tema è “Il volto della libertà artistica. Arte e democrazia”” – spiegano i due ballerini, conosciuti anche in Italia grazie all’invito al RomaEuropaFestival, nel mese di novembre, con una loro performance di danza in video. “Le strade durante la rivoluzione sono state lo spazio del possibile: della tensione, della gioia collettiva, della condivisione, dello scambio – dicono Selma e Soufiene – L’attenzione dei cittadini ora è concentrata sulla strada e, dunque, siamo convinti che apprezzeranno maggiormente che questo spazio venga usato anche dagli artisti. Il recupero della strada come luogo dell’arte è finalmente rilasciato”.
L’aria rivoluzionaria, dunque, si respira a tutte le ore in Tunisia. Per alcuni, infatti, la vera rivoluzione è appena cominciata e, nel caos generale, sono molti ad avere le idee ben chiare sia sul futuro, sia sull’identità tunisina. Basta dare un’occhiata su facebook dove, su molte bacheche, si legge: “Sogniamo la democrazia. Siamo musulmani e non siamo islamisti. Siamo moderati e non siamo estremisti. Siamo moderni e non siamo oscurantisti”.
www.francescabellino.it
Il pericolo di un’islamizzazione parziale della società tunisina, insieme alla concentrazione di poteri nelle mani di un unico partito, Ennahda appunto, sono dunque tra le nuove paure che la Tunisia si trova a vivere a un anno dalla liberazione del Paese. Ad appesantire maggiormente l’atmosfera ci sono, però, anche problemi più pratici come l’ormai dichiarata crisi del turismo, che era uno dei principali motori economici del Paese, e il rischio di desertificazione industriale. La recente chiusura dello stabilimento gestito dal gruppo giapponese Yazaki che produceva fasci di cavi a Om Laarayès, nella regione mineraria di Gafsa, ha aumentato lo stato d’allarme. “La decisione è stata presa in seguito a scioperi irregolari e non annunciati dai dipendenti il 15 e 16 dicembre che hanno causato danni per la clientela secondo Yazaki, leader mondiale nel suo settore – spiega Tarek Chaabouni, dirigente politico della sinistra democratica (Tajdid, ex partito comunista tunisino) – La problematica è stata dibattuta nel XXII Congresso dell’Unione dei lavoratori, l’UGTT, che si è tenuto a fine anno a Tabarka quando è stato eletto il nuovo segretario Houssine Abassi. Nell’Unione c’è stato un rinnovamento, anche qui necessario, ma i problemi restano. Tra le 3mila imprese straniere presenti sul territorio, sono andate via già circa 120 secondo l’Union Tunisienne de l’Industrie, du Commerce et de l’Artisanat (UTICA). Parallelamente, però, le esportazioni sono aumentate, anche se leggermente, nei settori elettromeccanico, manufatturiere, tessile, del cuoio e delle calzature. Ma c’è molto malcontento, soprattutto tra i giovani che non hanno lavoro. Il tasso di disoccupazione purtroppo è in crescita. A settembre 2011 era del 18% con un numero di disoccupati pari a 700mila persone”.
La chiusura dello stabilimento Yazaki pesa, dunque, particolarmente sull’occupazione. Il gruppo, già nel 2009, aveva annunciato investimenti per un totale di 25 milioni di euro e la creazione di 5mila posti di lavoro nella sola regione di Gafsa. Un’occasione di ripresa che oggi va in fumo proprio mentre crolla anche il settore dei fosfati che, nel 2011, ha dichiarato un incasso di 200 milioni di dinari contro gli 825 dell’anno precedente, e mentre vengono sospesi anche i lavori di costruzione dello stabilimento per la produzione di pannelli fotovoltaici a Bousalem. In generale, secondo l’UTICA, l’indicatore di produttività in Tunisia è sceso a un livello mai raggiunto prima proprio per l’ondata di scioperi che nei primi dieci mesi del 2011 si sono stati 360.
Proteste, scioperi e sit-in, dunque, hanno caratterizzato l’intero anno. Tra le mobilitazioni più recenti e significative c’è stata quella del 22 novembre, quando i tunisini hanno manifestato davanti al Parlamento, a Bardo, per criticare l’operato di Ennahda. “Comunicare sdegno e dissenso nello spazio pubblico è stata la grande conquista della rivoluzione, dunque è un bene che questo avvenga – aggiunge Mourad Ben Cheikh – Oggi, infatti, assistiamo a un braccio di ferro tra i poteri e la società civile. I politici stanno cercando di capire fino a che punto le gente ha la forza di difendere le proprie libertà e i propri diritti”.
In prima linea nel comunicare disapprovazione ci sono anche le donne. “È vero che in Tunisia il mondo femminile ha molti più diritti rispetto al resto del mondo arabo, ma questi privilegi sono stati ricevuti su un piatto d’argento, senza lottare – sottolinea Sondes Ben Khalifa, giornalista e blogger – Oggi che i rischi di perdere i diritti sono reali è arrivato per le donne il momento di condurre una dura e vera battaglia”.
Già dal 1956, grazie alla volontà del presidente Habib Bourguiba, in Tunisia, infatti, è stata proibita la poligamia e le donne hanno ottenuto il diritto al divorzio e di essere tutrici dei figli. “Sul piano legale, e quindi teorico, le donne beneficiano degli stessi diritti civili e politici degli uomini, ma in pratica la loro partecipazione alla vita politica e la loro presenza nelle alte funzioni dello Stato è debole” spiega Hela Ammar, docente alla Facoltà di diritto a Tunisi, artista visuale e membro dell’Association Tunisienne des Femmes Démocrates (ATFD) e della Commissione nazionale d'inchiesta sugli abusi avvenuti durante la rivoluzione.
“Una delle principali rivendicazioni pre-elettorali è stata imporre il principio di parità in modo da evidenziare il ruolo della donna nella società tunisina e nella rivoluzione stessa”, aggiunge Hela Ammar. “L'attuazione di questo principio, però, non ha portato a una parità nel numero di seggi attribuiti: nell’Assemblea Costituente ci sono solo 49 donne, su 217 posti, ossia il 24%. Il nuovo governo, inoltre, è formato solo da due ministri donne (Sihem Badi, Ministero delle Donne, e Mamia Elbanna Ministero dell'Ambiente) e di un Segretario di Stato presso il Ministero delle infrastrutture e dell’abitazione, Chahida Fraj Bouraoui, su un totale di 30 ministri e 11 segretari di Stato. Questo significa che esiste un’assenza di rappresentanza femminile in politica, ma non per la mancanza di competenze da parte delle nostre politiche”.
Il nuovo governo, votato lo scorso 22 dicembre, è dunque formato prevalentemente da uomini. È presieduto da Hamadi Jebali, leader di Ennahda che ha vissuto 16 anni in carcere, di cui 10 in cella d’isolamento, ed è stato scarcerato con l’amnistia dopo la fuga di Ben Alì. A Ennahda sono stati assegnati anche i dicasteri più importanti: Interno (Alì Layaredh), Giustizia (Noreddine Bhiri) e Affari Esteri (Rafik Ben Abdessalem). Il ministero della Difesa, invece, è andato a Abdelkrim Zbidi, un tecnocrate dell’ex governo ad interim, mentre quello della Cultura a un indipendente, al sociologo Mehdi Mabrouk che, nel suo primo discorso, ha sottolineato “di essere deciso a presentare un programma di riforme per rafforzare i guadagni del settore e per eliminare le restrizioni che ostacolano chi lavora nella cultura”, ma non ha dato alcun cenno sullo sviluppo del progetto della “Città della cultura” da anni in attesa di realizzazione.
Al CPR (Congrès pour la République), partito del presidente della Repubblica, Moncef Marzouki, e alleato di Ennahda insieme a Ettakatol (Forum Démocratique pour le Travail et les Libertés), la cui coalizione viene chiamata Troika, sono andati i ministeri delle Riforme amministrativa (Mohamed Abbou) e della Formazione professionale (Abdelwehab Maatar). CPR e Ettakatol, dopo Ennahda, sono i partiti che hanno ottenuto maggiori seggi alle elezioni, rispettivamente 30 e 21. Gli altri seggi sono stati divisi tra la Pétition populaire pour la liberté, la justice et le développement (19), il PDP (Parti Démocrate Progressiste) (17) e uno sterminato numero di altre liste concorrenti.
“L’opposizione si trova in una situazione di grande frammentazione. La prima esigenza del 2012, infatti, è quella di unirsi e creare un unico fronte democratico – spiega Tarek Chaabouni – L’opposizione è composta da PDP capeggiata dall’avvocato Ahmed Najib Chebbi, dal Tajdid e da Afek Tounes (che rappresentano il Pôle Démocratique Moderniste), da qualche residuo del RCD (Regroupement Costitutional Démocratique), ossia il partito dell’ex presidente Ben Alì, da alcuni indipendenti e dalla Pétition populaire creata da Hashmi Hamdi, titolare di una televisione a Londra con buoni rapporti con l’ex regime, tra le sorprese delle elezioni in termini di voti grazie all’appoggio degli ex componenti del RCD. Nessuno tra questi partiti si è presentato come laico o non credente. Sarebbe stato un suicidio politico”.
“È sbagliato oggi dividere i politici tra laici e non laici, se per laicità s’intende qualcosa di astratto o un concetto importato alla francese. Anche l'Italia sarebbe un paese non laico se guardato con il metro francese – sottolinea Mourad Ben Cheikh – Oggi in Tunisia è importante prestare attenzione, invece, alla grande ricchezza di opinioni, al pluralismo e alla capacità dei progressisti di protestare per difendere lo spazio pubblico e politico come è successo al Bardo, davanti al Parlamento”.
Secondo i risultati di un sondaggio realizzato da Sigma Conseil e reso noto a inizio gennaio, il 41% dei tunisini considera il momento attuale molto critico, mentre il 28% lo vive con meno preoccupazioni. La popolazione si dice, infatti, più fiduciosa per il futuro rispetto al presente. Il 67% è ottimista per l’avvenire e solo il 7% è pessimista.
“Le richieste fatte al nuovo governo, secondo il sondaggio – spiega Chaabouni –riguardano in primis l’occupazione, poi la sicurezza, l’eliminazione del caro vita e l’innalzamento del tenore di vita. In seconda battuta la gente chiede maggiore attenzione alle Regioni e l’abolizione della corruzione. La maggiore popolarità tra i politici è andata a chi sta al potere, ma i tunisini si dicono più fiduciosi verso le istituzioni in se stesse, piuttosto che verso le personalità politiche”.
“Nessuno si accontenta delle parole oggi, tutti aspettano i fatti. Per questo sono davvero pochi quelli che si fidano attualmente dei politici” sottolinea Mohamed Challouf, produttore, regista di documentari e organizzatore di eventi tra cui le celebrazioni per l’anniversario di un anno dalla cacciata di Ben Alì previste a Milano, al Teatro Rosetum, il 15 gennaio. “Nel Paese c’è molta confusione, direi a tratti anarchia se si guarda agli scioperi nelle fabbriche e alle ripetute proteste, e la gente ha paura del presente”, aggiunge Challouf. “Parte delle responsabilità nella nostra condizione attuale sono da attribuire all’Occidente che ha aperto le braccia ai dittatori nel mondo arabo. Gli islamisti, e dunque il rischio della perdita di molte libertà, oggi non sarebbero così in crescita se non ci fossero state oppressione e repressione per tanti anni”.
Nonostante la facciata di modernità e apertura, anche sotto il regime di Ben Ali le libertà individuali sono state messe a dura prova. “Le donne velate, per esempio – spiega Hela Ammar –, sono state perseguitate e talvolta è stato impedito loro di esercitare la propria professione a causa dell’abbigliamento. L’uso del niqab negli spazi pubblici è una libertà individuale e come tale non dovrebbe essere condannata. D'altra parte, però, il niqab, a differenza del velo, pone un problema di sicurezza perché nasconde il volto e non consente l'identificazione della persona che lo indossa. Questo problema è sorto alla facoltà di lettere di Mannuba dove è stato impedito a studentesse di indossare il niqab in sala d’esame. Questo è davvero un argomento delicato al quale, però, è necessario trovare una soluzione in equilibrio tra libertà individuale e rispetto delle tradizioni”.
Contraddizioni, paradossi e contrasti in questa fase si trovano in diversi ambiti, soprattutto se si entra in territori ricchi di tabù, come il sesso. “Ho assistito alla chiusura forzata di alcuni bordelli durante la rivoluzione – racconta Hela Ammar – e sono stata particolarmente colpita dalla violenza e dall'incoscienza di tali atti. Non c’è stata alcuna considerazione per gente che esercita un mestiere riconosciuto e regolato dalla legge. I lavoratori del sesso sono monitorati, pagano le tasse come tutti gli altri e, inoltre, il mercato del sesso, a prescindere dalle connotazioni morali, colma una funzione sociale ancora innegabile ed è esercitato in condizioni d’igiene e sicurezza. La chiusura dei bordelli ora non farà diminuire il sesso illegale, ma al contrario, lo farà aumentare insieme alla crescita dei rischi di malattie e di violenza sessuale”.
La Tunisia di oggi è confusa e smarrita. L’anno è iniziato tra veglioni analcolici, la visita dei ministri degli esteri di Italia, Francia e Germania, l’arrivo del leader di Hamas, Ismail Haniyeh, accolto all’aeroporto di Tunisi con lo slogan “Morte agli ebrei”, e nuove proteste. L’ultima è esplosa a piazza del Governo, il giorno della Befana, per chiedere un risarcimento per i morti e per i feriti della rivoluzione, mentre l’Università di Mannuba è ancora chiusa a causa dell’occupazione dei salafiti che hanno chiesto l’accettazione in sala d’esame di una studentessa con il niqab.
Anche il mondo dell’arte e dello spettacolo è in fermento. Sono tante le idee e le iniziative in programma per il 2012 per “annientare il deserto culturale” degli ultimi 23 anni. Tra i giovani indaffarati a conquistare maggiori libertà ci sono due giovani ballerini, Selma e Soufiene Ouissi, che stanno organizzando la terza edizione di “Dream City 2012: Biennale d'Arte Contemporanea nello spazio pubblico in Tunisia”. L’evento, che si svolgerà dal 26 al 30 settembre a Tunisi e dal 5 al 7 ottobre a Sfax, avrà luogo rigorosamente in strada per coinvolgere tutta la popolazione con video, performance, spettacoli, mostre e dibattiti. “Il tema è “Il volto della libertà artistica. Arte e democrazia”” – spiegano i due ballerini, conosciuti anche in Italia grazie all’invito al RomaEuropaFestival, nel mese di novembre, con una loro performance di danza in video. “Le strade durante la rivoluzione sono state lo spazio del possibile: della tensione, della gioia collettiva, della condivisione, dello scambio – dicono Selma e Soufiene – L’attenzione dei cittadini ora è concentrata sulla strada e, dunque, siamo convinti che apprezzeranno maggiormente che questo spazio venga usato anche dagli artisti. Il recupero della strada come luogo dell’arte è finalmente rilasciato”.
L’aria rivoluzionaria, dunque, si respira a tutte le ore in Tunisia. Per alcuni, infatti, la vera rivoluzione è appena cominciata e, nel caos generale, sono molti ad avere le idee ben chiare sia sul futuro, sia sull’identità tunisina. Basta dare un’occhiata su facebook dove, su molte bacheche, si legge: “Sogniamo la democrazia. Siamo musulmani e non siamo islamisti. Siamo moderati e non siamo estremisti. Siamo moderni e non siamo oscurantisti”.
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