mercoledì 11 maggio 2011

Le lacrime di una sala d'attesa

Negli ultimi mesi l'aeroporto di Tunis Carthage e' stato il testimone privilegiato di un crocevia di emozioni e di umanita', oltre che luogo dove si e' scritta la storia della Tunisia. Da questo aeroporto si e' consumata la fuga del dittatore Ben Ali e la fine di un epoca. Da questo aeroporto si e' consumata uno degli atti di coraggio e di disobbedienza nei confronti della famiglia del dittatore Ben Ali, per mano di Captain Mohamed Ben Kilani che ne rifiuto' l'imbarco, negandone la fuga. . Ma e' lontano dai grandi riflettori e dai grandi eventi, che si scrive la storia in questo stesso aeroporto. E' la storia dei rientri, come quello degli uomini e donne che tornano da anni di esilio e ad accoglierlo sono folle giobilanti di amici e parenti. Tornano nella Tunisia libera, pieni di speranza e voglia di costruire un paese nuovo. Ma ci sono anche i rimpatri, quelli dei voli speciali che riportano indietro le speranze frantumate sulle coste di Lampedusa, che riportano chi ha perso tutto mettendo il proprio destino e i propri soldi in mano ai trafficanti di uomini, e che torna in un paese che ha poco da offire in un periodo di grave crisi econommica. Tornano con voli targati Tunisair o Alitalia, spesso in charters dove si mischiano turisti (quei pochi che vengono in questi giorni) e uomini d'affari. Il loro ritorno non e' la scoperta di nuove terre o opportunita', ma il ritorno all'emarginazione alla poverta', alla dura realta' di chi e' scappato, ma e' stato rifiutato. L'incontro con i propri amici e parenti nella sala arrivi dell'aeroporto e' straziante. Versano lacrime. Non sono le lacrime di gioia di chi si rincontra dopo tanto tempo, ne' quelle di chi si separa di fronte ad una partenza, ma il paradosso e' che quelle sono le lacrime di un incontro, che e' la realizzazione di un fallimento. Sono stato all'aeroporto qualche giorno fa e li ho visti con i miei occhi, io pronto a riabbracciare con gioia mia madre che veniva in visita in Tunisia, e loro che soffrivano per un amaro incontro obbligato. Avrei tanto voluto piangere con loro, offrire un qualche forma sollievo. Avrei voluto condividere questa immagine, questi volti con tutti coloro che nell'Italia e l'Europa di oggi sono pronti a gridare al rimpatrio immediato egli immigrati, senza chiedersi  da dove vengano, perche' hanno rischiato la loro vita per raggiungere le nostre terre, ma soprattutto cosa vanno a trovare, quando tornano nelle proprie terre. 

1 commento:

  1. [...] Dopo che furono entrati, concesso che fu di parlare,
    il venerando Ilioneo così comincia, pacato:
    «Regina, a cui donò Giove fondare una nuova città,
    guidar con giustizia una gente superba, te noi,
    miseri Teucri, zimbello dei venti pei mari,
    supplichiamo; risparmia l’orrendo incendio alle navi!
    Pietà di un popolo pio, le cose nostre più da vicino considera.
    Oh, non veniamo col ferro a saccheggiare le case
    di Libia, e fatta preda a trarla alla riva: non hanno
    tal violenza nell’anima, tanta protervia, i vinti.
    C’è un luogo, Esperia i Greci per nome lo dicono,
    terra antica, d’armi potente e feconda di zolla,
    gli Enotrii l’hanno abitata, ora è fama che i figli
    Italia abbian detto dal nome d’un capo la gente.
    Questa era la rotta.
    Quando sul flutto levandosi tempestoso Orione,
    su ciechi banchi ci spinse e arenò, col vento violento,
    e vinti dal mare, per l’onde, per le impervie scogliere
    ci disseminò: pochi qui al lido vostro nuotammo.
    Ma che popolo è questo? Che barbara patria
    permette una simile usanza? L’asilo della sabbia ci negano,
    fan guerra, ci vietano di porre piede sul lido!
    Se gli uomini avete in disprezzo e l’armi degli uomini,
    ma temete gli dèi, che bene e male ricordano [...]»
    [...] E brevemente Didone, chinando il volto, parlò:
    «Sciogliete l’ansia dal cuore, Teucri, lasciate l’angoscia.
    Dura vita e nuovo regno a questo mi forzano,
    guardar tutt’intorno con l’armi i confini.
    Ma degli Eneadi chi il sangue, chi ignora Troia
    e gli uomini e i fatti e tanto incendio di guerra?
    Non così chiuso il cuore abbiamo, noi Puni,
    non così opposto a Tiro aggioga il sole i cavalli.
    Che voi l’Esperia grande, la terra saturnia,
    o i campi d’Erice scegliate e il re Aceste, io partire
    vi farò confortati, vi darò quanto posso.
    Voleste anche fermarvi, con me in questo regno,
    vostra è la rocca che alzo: tirate in secco le navi.
    Teucro o Tirio, da me avrà ugual trattamento [...]»

    (Eneide, I, 520-574; Traduz. Rosa Calzecchi Onesti)

    Didone offre ospitalità ai profughi troiani perché è lei stessa migrante, vittima di una ‘guerra’, di un sopruso, di un’ingiustizia. Chi di noi non lo è o può pensare di esserne immune?

    La regina, in fuga da Tiro, fonda Cartagine riducendo in strisce sottilissime una pelle di bue, affinché la città sia più grande di quello che le viene imposto. A pensarci bene la sua non è un’astuzia ma un rito d’accoglienza. Quella pelle è il suo ventre: aperto sul mare, aperto verso l’altro. Urbem quam statuo vestra est, subducite naves; Tros Tyriusque mihi nullo discrimine agetur.

    (estratto da: Il Ventre e il Mare di Valentina Porcheddu : http://gliocchidiblimunda.wordpress.com/2011/04/15/valentina-porcheddu-il-ventre-e-il-mare/)

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